Come sappiamo, gli elettroni delle orbite più esterne dei metalli sono quasi liberi di muoversi a caso nel reticolo del metallo stesso. Vi è una debole “differenza” di energia che li separa dall’esterno, e qualora assumessero tale energia, essi uscirebbero dal metallo.
Questa energia che li costringe a stare dentro il reticolo è tipica di ogni tipo di metallo.
Ogni metallo possiede la propria “energia di estrazione”.
Il fenomeno dell’emissione fotoelettrica è quindi molto chiaro e apparentemente semplice da spiegare.
Vi è – però – il problema che, dal punto di vista della teoria di Maxwell, un elettrone colpito dalla luce dovrebbe assumere energia con continuità fino ad essere in grado di superare la “barriera” ed uscire dal metallo.
Ogni elettrone, colpito da luce di qualunque frequenza, prima o poi, appena raggiunta l’energia sufficiente, dovrebbe uscire dal metallo (secondo Maxwell).
L’evidenza sperimentale, invece, mostra che la luce di frequenza inferiore a quella di soglia (per quanto intensa e persistente nel tempo) non produce tale effetto.
Come si risolve la contraddizione fra realtà e teoria?
Una soluzione potrebbe essere quella di fare riferimento ai principi della fisica quantistica secondo i quali la luce è costituita da quanti, i fotoni, particelle dotate di energia proporzionale alla frequenza della radiazione: E 7 = h · ν , dove E indica l’energia del fotone, h è una costante (la costante di Planck) e ν (ni) è la frequenza della radiazione.
Poichè un fotone cede ad un elettrone dentro il metallo la propria energia, la sua entità sarà in funzione della frequenza per cui un elettrone supera la barriera ed esce dal metallo solo se la frequenza della luce corrisponde all’energia di estrazione.